“Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione”. E non c’è bisogno di avere una sensibilità poetica come quella di Pier Paolo Pasolini per farsi rapire dall’estasi che solo una partita di calcio sa regalare, in special modo se si tratta di un derby. Tra i più emozionanti e, in un certo qual modo, discussi, vi è senz’altro quello che vede fronteggiati la Salernitana e il Napoli. La storia è arcinota: da un lato la compagine partenopea, forte dei tanti anni in serie A e degli scudetti e delle coppe, e dall’altro una squadra, quella granata, da molti definita eloquentemente La vecchia Signora della Serie C, a testimonianza di un palmares non certo pari a quello dei cugini partenopei. Inevitabile che il confronto sia sentito, almeno a livello di premesse e sul piano delle apparenze, più sul lato granata che da quello azzurro. E questa stessa spocchia, probabilmente, accompagnava anche i 60.000 tifosi partenopei accorsi in massa allo Stadio San Paolo di Napoli il 27 Gennaio 2002 (quando si dice “una partita poco sentita” … ) per assistere al recupero del match non giocato il 19 Dicembre 2001 a causa dell’impraticabilità dell’impianto di Fuorigrotta. Dopo un primo tempo a reti bianche, la partita si accendeva nella ripresa. Sugli sviluppi di un calcio d’angolo per il Napoli, gli azzurri trovavano il vantaggio con un gol in scivolata di Villa al 63°. Lo stadio andava letteralmente in delirio, a discapito di ogni compostezza per quella che doveva essere una partita poco sentita. Di certo così non era per quei tifosi azzurri che, in un eccesso di entusiasmo, avevano scavalcato la recinzione per recarsi sul campo di gioco a portare in trionfo i loro beniamini. D’altronde, come dargli torto: si era al 90° minuto, anzi nei 3 minuti di recupero accordati dall’arbitro internazionale Rosetti di Torino, e quel modo compassato e distaccato di vivere una partita solo nelle apparenze poco sentita aveva stancato gli stessi tifosi partenopei. Tuttavia, quell’interruzione costringeva a prolungare di un minuto, un solo piccolo minuto, oltre che l’attesa per l’esplosione di gioia finale, anche lo stesso recupero. Ma questo splendido e crudele sport che è il calcio insegna che per sovvertire le sorti di una partita basta anche meno. Punizione per i granata dalla trequarti, palla a Di Vicino che scoccava un tiro violento di sinistro, con sfera che si stampava sul palo alla destra del portiere Mancini prima di raggiungere al centro dell’area di rigore l’argentino venuto dallo Sparta Praga, o dalla Provvidenza, Leandro Lazzaro che, senza fare troppi complimenti, stoppava il pallone col petto e lo infilava di destro nella porta degli azzurri. Il tutto in poco più di sette secondi quando il cronometro segnava il 94° minuto. Lazzaro al 94°. Il tripudio e la gioia delle migliaia di salernitani accorsi a Napoli e di quanti seguivano la partita in tv era ben espressa dalla corsa forsennata dei calciatori granata -per l’occasione in maglia bianca - sotto lo spicchio di stadio occupato dai propri tifosi, che per poco non trascinava con sé il boemo Zeman, anch’egli, almeno per un attimo, trascinato dall’emozione. Che si sia trattato di un semplice pareggio o di un’impresa calcistica è una questione relativa, dipende come sempre da che parte si vuol guardare e soprattutto con quali occhi farlo. Di una cosa, però, siamo certi: finché un pallone rotolerà su di un campo di calcio, ci sarà almeno un tifoso con la maglia granata e il cavalluccio sul petto, fosse anche l’ultimo, che, guardando l’orologio e la partita avviarsi alla fine, sentirà un brivido sulla schiena e ricorderà di non dover mai smettere di sperare, perché non tutte le partite finiscono al 90°.
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