Salernitana-Venezia di sabato prossimo evoca una indimenticabile sfida di 23 anni fa, che solo i tifosi ultratrentenni possono ricordare nitidamente. Si giocò il 10 maggio 1998 in un Arechi gremito, ma silenzioso, con le bandiere ammainate e gli striscioni inneggianti alla riconquistata serie A non dispiegati del tutto per rispettare il grave lutto che aveva colpito Sarno e i centri confinanti. Era un D-Day pieno di aspettative, ma reso triste dal fango che nella notte tra il 5 e il 6 maggio aveva ucciso nel sonno 160 persone. Le due contendenti si affrontarono con il patto non patteggiato di non affondare i colpi, come si dice nel gergo pugilistico; e del resto agli uomini di Delio Rossi serviva un pareggio per essere matematicamente sicuri della promozione con 5 giornate di anticipo mentre interesse dei lagunari era di non stuzzicare un avversario che proprio a Venezia, nel girone di andata, aveva dimostrato la sua netta superiorità, vincendo 3-0, con due gol dell’indimenticabile Marco Di Vaio e il terzo di Greco , e prendendo la testa della classifica senza mollarla più. Si giocò, dunque, al rallenty, tant’è vero che negli ultimi 6-7 minuti, e lo si capì chiaramente, gli ospiti invitarono i padroni di casa a fare melina. Le due compagini erano le più dotate e brillanti di un lotto di serie B in cui non si erano mai viste tante nobili decadute vincitrici di scudetti. Torino, Genoa, Cagliari e Verona sulla carta erano considerati calibri da 90, e le outsiders sembravano avere poco spazio.
Ma le previsioni furono smentite dal campionato che raccontò tuitt’altra storia. Prima il Venezia e, subito dopo, la Salernitana monopolizzarono il primato lasciando al Cagliari di Ventura il terzo posto e al Toro il quarto che, però, i granata della Mole si fecero soffiare in extremis dal Perugia. Al loro secondo scontro frontale a 6 giornate dal termine del torneo (oggi ne mancano 5), Salernitana e Venezia decisero di concedersi una domenica di relax dopo lo stress imposto ai granata da una lunga fuga e ai lagunari da uno snervante inseguimento. Il pubblico assistette a 90 e più minuti di innocua pantomima recitata da due squadre che si scambiavano carezze e inchini invece di muscolari spingardate e affondi velenosi. E alla fine accomunò cotanti mimi nel delirio di una coreografia mai più dimenticata da chi la visse. Quindici giorni dopo, il 24 maggio, lo stesso trattamento indulgente non fu riservato al Monza battuto con un pesante 4-1 da una Salernitana tornata al suo spietato ruolo di macchina da guerra, che nulla perdonava all’avversario.
Questo andava scritto per completare l’informazione sulle due prossime avversarie che si frapporranno ai granata nella corsa verso il secondo posto che dà accesso diretto alla serie A. A scanso di equivoci si deve riconoscere che il contesto in cui si gioca oggi è profondamente diverso da quello appena ricordato. A parte i nomi degli attori che sono cambiati, i campionati sono stati colpiti al cuore della loro cifra tecnico- agonistica da un subdolo e oscuro male che si fa fatica a fronteggiare. Pandemia, paura per la circolazione di un virus invisibile, contagi che mettono fuori combattimento fior di giocatori, stadi deserti e entusiasmi sopiti, sono elementi condizionanti di cui non si conosce la portata. Mai si è verificata una situazione così esasperata e frustrante. La stessa Salernitana che oggi tenta l’impresa attesa da 23 anni, è diversa da quella del 1997-98.
Quanto contano divieti e privazioni che mettono a durissima prova il nostro spirito di sopportazione? E quanto la desolazione dell’Arechi senza voci, senza bandiere, senza spinte emotive, senza incoraggiamenti e, perfino, senza fischi e dileggi? Noi siamo rimasti legati alla squadra irresistibile di Marco Di Vaio, dei fratelli Tedesco, di capitan Breda , dei Tosto, Balli e Franceschini ; dei due salernitani di Mariconda Fusco e De Cesare ; di Delio Rossi e del presidente Aliberti. Ma come non ammirare la pattuglia di Fabrizio Castori , l’allenatore col cuore di filantropo, capace di riaprire un sogno in condizioni sanitarie e sociali, prima che tecniche, così precarie? Comunque vadano le cose nelle prossime cinque giornate e nei playoff, se ci saranno per i granata, è sicuro che Castori e i suoi ragazzi un posto di riguardo nella storia del club granata lo hanno già ottenuto.
Per tutti i motivi esposti, diversa sarà anche la partita di sabato prossimo. Il Venezia, c’è da giurarlo, non chiederà ai granata di fare melina, ma si batterà con le baionette innestate, sapendo di essere ripagato con la stessa moneta da un avversario, che si sta dimostrando più forte delle avversità nascoste e subdole che insidiano la quotidianità di tutti noi, e che continua a battersi per un secondo posto che non è più un miraggio ora che il Lecce e ferito e meno sicuro di due domeniche fa. Queste cose le sappiamo tutti. Ciò che non sappiamo è cosa può succedere a minuti in un calcio così fragile, precario ed esposto come quello che si gioca nella stagione infernale della pandemia e dei milioni di morti di Covid-19. E allora non ci resta che cullarci nell’illusione che i 90’ che ci apprestiamo a vivere appartengano a un calcio normale in attesa che questo persistente incubo ci lasci per sempre. Che l’Arechi ritorni presto a riempirsi di cori e di bandiere mosse dal vento caldo del Sud.
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