All’Arechi arriva una partita che pesa come un macigno, molto più dei tre punti in palio: dopo la scoppola di Benevento, di quelle che ti restano addosso come una macchia indelebile negli annali, Salernitana–Trapani è una verifica collettiva di nervi, idee e ambizioni. Non è solo un turno di calendario, è un bivio: o la Bersagliera ritrova compattezza e cattiveria, o rischia di trasformare questo campionato in una lenta scivolata verso la mediocrità, con il Catania che ha già approfittato del passo falso granata per scappare in vetta e un Arechi che, se tradito troppe volte, sa diventare improvvisamente gelido.
Il problema è che dall’altra parte non arriva la “provinciale simpatica” a fare da comparsa, ma un Trapani costruito con portafoglio aperto, doppioni in quasi tutti i ruoli e un reparto offensivo che in categoria fa rumore. E’ vero che c’è una fibrillazione tra presidente e tifosi, ma rimane una squadra che negli ultimi anni ha trovato identità proprio nella capacità di far male davanti, con attaccanti pronti a trasformare ogni transizione in un’occasione da rete. Oggi viaggia a metà classifica, a causa degli 8 punti di penalizzazione, con numeri che la tengono pienamente agganciata alla zona playoff. Tradotto: se le maglie in mezzo si allargano e la linea difensiva granata resta alta e lenta come si è vista nelle ultime uscite, questi ti puntano, ti saltano e ti fanno fare la figura della comparsa nel tuo stesso teatro.
Il nodo, però, è che anche in casa granata la guida tecnica scricchiola, non nei principi ma nelle applicazioni: Raffaele ha cambiato più volte pelle alla Salernitana, cercando soluzioni, fidandosi di esperimenti e di rotazioni che alla lunga hanno dato la sensazione di una squadra sempre “work in progress” e mai davvero compiuta. Ogni aggiustamento in corsa, ogni spostamento di uomini che in teoria dovrebbe affinare l’alchimia, finisce per rompere quell’amalgama che in Serie C è oro colato: la prova è nel numero di contropiedi sanguinosi concessi anche quando la partita sembrava sotto controllo e in modo brutale a Benevento. Qui non serve l’ennesimo laboratorio, serve una scelta chiara: poche idee ma buone, interpreti definiti, responsabilità precise e, soprattutto, la capacità di capire che non tutte le gare vanno affrontate con la stessa “foga cieca” che il mister ha rivendicato.
E allora sì, stavolta la richiesta della piazza è quasi un ultimatum tattico: basta con le tre punte sterili che ti illudono di dominare e in realtà ti svuotano il centrocampo, lasciando praterie per le ripartenze avversarie che la lentezza della retroguardia granata non può più permettersi. La Salernitana ha dimostrato di avere un’identità più solida con il 3-5-2, quando il centro nevralgico del campo è denso, il palleggio è pulito e gli esterni accompagnano con criterio, e la coppia Ferraris–Inglese è l’unico vero compromesso possibile tra fisicità, profondità e qualità: Ferraris va tenuto dentro l’area, dove fiuta la porta e illumina la curva come già successo all’Arechi, non sacrificato a sgobbare sulla fascia; Inglese, invece, è arrivato qui per essere il totem, il capitano, non un reduce in attesa di pensione, e questa partita gli chiede senza giri di parole di scegliere cosa vuole essere. O torna punta di diamante, pronto a prendersi legnate e responsabilità, o diventa il simbolo di una Salernitana che si accontenta del “nome” e non più della fame: e una tifoseria cresciuta tra l’inferno della C e i lampi della A non perdona chi gioca con questa modalità.
Attenzione, però, a pensare che la pressione pesi solo su Raffaele: anche mister Aronica, dall’altra parte, è allenatore sotto esame, e proprio per questo verrà all’Arechi con la lucida ferocia di chi sa che un colpo esterno contro una big può ribaltare giudizi e classifiche. Ha studiato i video, conosce ormai a memoria le crepe granata – il lato debole sulle palle inattive, la gestione ansiosa del vantaggio, la facilità con cui questa squadra va sotto contropiede perfino su rimesse laterali a favore – e si presenterà con un Potenza corto, pronto a raddoppiare sulle mezzali granata e a ribaltare il campo appena il pallone si sporca. Non è un caso che i lucani abbiano già dimostrato in questo campionato di saper far male quando l’avversario si specchia troppo nel proprio gioco: all’Arechi verranno senza timori reverenziali, con il conto in tasca delle paure granata.
Sullo sfondo, ma nemmeno troppo, c’è poi il tema che rode i bar, le edicole e i tavoli di via Roma: la società. Faggiano, a giugno, ha fatto un mezzo prodigio sportivo, mettendo insieme quasi da zero una rosa competitiva raggranellando svincolati e occasioni in ogni angolo del mercato, riuscendo perfino a tenere la Salernitana in zona altissima nonostante una panchina corta e un reparto difensivo pieno di punti interrogativi. Ma adesso, con un Benevento che ti rifila cinque schiaffi e un Catania che prende il largo, è evidente che il tempo delle toppe è finito: o si mette mano forte al portafoglio a gennaio, portando almeno tre o quattro innesti veri dietro, in mezzo e in attacco, o si accetta il rischio che l’Arechi cominci lentamente a svuotarsi, stanco di vedere una squadra sempre a un passo dal salto ma con la coperta sistematicamente corta. Perché a Salerno l’amore è infinito, ma non è cieco: se la proprietà si limita a godersi la cornice senza rinforzare il quadro, un giorno potrebbe ritrovarsi uno stadio muto a ricordarle che, in questa città, il calcio non è intrattenimento ma identità, e che certe occasioni, se le lasci scappare, poi non tornano più.
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