Firmò e se ne andò. Trentadue giorni, quattro partite, un punto, le dimissioni. Gian Piero Ventura passò come un fulmine. Questa sera di nuovo al Bentegodi, per la prima volta dopo quell’addio che nessuno ha mai capito davvero. "Può restare quanto vuole", disse Campedelli quando il Chievo, anche con giustificato orgoglio, rimarcò, nel giorno della presentazione, il fatto di essersi messo nelle mani di un pluridecorato della panchina e dell’ex commissario tecnico dell’Italia, pur quella incapace di segnare un gol in due partite alla Svezia e di andare ai Mondiali. Ventura prese alla lettera l’invito del presidente. Abbandonando la nave in fretta dopo aver avuto carta bianca su tutto. Ritoccò anche l’alimentazione, portandosi il suo nutrizionista di fiducia. E mettendo alla porta Roberto De Bellis, il preparatore atletico sempre immune ai cambi di allenatore. Chiudendo porte e finestre, lasciando lontano dal campo anche i dirigenti. Lui e il Chievo, la sua idea di calcio complicata da capire soprattutto in fretta ma che tutti avevano cercato di abbracciare nonostante un avvio in linea con la gestione di D’Anna. Calcio bello a vedersi, produttivo, coinvolgente. Il fascino del nuovo, adrenalina pura pur in un contesto parecchio complicato ed una classifica già inequivocabile. "Bisogna ricostruire tutto", la continua sintesi di Ventura, puntando l’indice su una condizione fisica per lui scadente e infortuni che nel suo mese però continuarono a moltiplicarsi. Finché il castello crollò.
TOCCATA E FUGA. Notte fonda a Veronello. Era la sera del 9 di ottobre. Ventura lì con l’intero Chievo attorno. Atterrato in serata dopo ore ed ore al telefono pur di convincerlo ad accettare. Senza aerei in partenza a breve. Volando su Milano, con tanto di corsa in autostrada fino ad Affi e poi nella sua nuova casa. Giornata infinita. Lui a Bari fino a qualche ora prima, il Chievo ad attenderlo. Campedelli piombò alle 23.30, quando ormai era tutto fatto. Quando Ventura aveva detto sì, quando il Chievo si sentì all’improvviso rinato. Dopo aver cercato e incontrato Iachini, dopo due punti in otto giornate con D’Anna ma una media replicata perfettamente dal suo successore. "Ho accettato più che altro per una questione di amicizia", ha sempre detto Ventura, prima e dopo, visto il solido rapporto col presidente ma essenzialmente per il desiderio di cancellare in un modo o nell’altro la delusione azzurra. Operazione fallita al Chievo, riuscita per ora alla Salernitana. Deluse Ventura. Anche il capitano. «Se ne voleva andare già dal primo momento che è arrivato. Pazzesco! In 22 stagioni da professionista pensavo di aver visto tutto ma sono costretto ad ammettere che c’è sempre qualcosa di nuovo», l’amarissimo sfogo di Pellissier quando Ventura salutò la compagnia dopo il pareggio col Bologna, saltando la conferenza stampa a cui si presentò il direttore sportivo Romairone, spiazzatissimo come d’altronde tutti i giocatori. Da allora di Ventura non ci fu più traccia.
MISSIONE FALLITA. Numeri alla mano nessuno ha fatto peggio di lui al Chievo, anche se il periodo è stato breve e il monitoraggio relativo. Di Carlo, quello del dopo Ventura, salì ad una media di 0,65 a partita, restituendo alla squadra consapevolezza e ardore. Seppur in un mare di limiti. Iachini toccò quota 0,6 quando venne esonerato nel 2008, inferiore a Ventura solo la media di Pillon con 0,17 punti nelle sei giornate prima dell’esonero e del ritorno di Delneri nel 2007. Sull’argomento Campedelli non è mai tornato troppo volentieri, lasciandosi tutto alle spalle e soprattutto dentro. L’edificio di Ventura si squagliò in fretta. Scosso già dopo la batosta con l’Atalanta. Poi battuto con onore a Cagliari, sconfitto dal Sassuolo, promettente contro il Bologna. Quando la squadra uno spiraglio cominciava ad intravederlo, quando Ventura però decise di fare le valigie e dileguarsi. Senza combattere, senza continuare quel lavoro a cui tutti s’erano aggrappati. Proprio la ciliegina sulla torta di un’annata cominciata col processo sulle plusvalenze fittizie col Cesena, con l’immobilismo sul mercato, una rosa incompleta e punti di domanda uno dietro l’altro. Mancava Ventura per completare il quadro. E spostare la scena ai confini del paradosso.
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