Resoconto emotivo di una stagione straziante.
Perdere è una questione di metodo. Da qualche parte, andrebbe pubblicato un manuale di istruzioni sulla sconfitta. Chi perde non riesce ad andarsene via così, come se fosse il normale corso delle cose. Succede in politica, succede nei talent show, al Festival di Sanremo, succede in Serie A. Dopotutto, che cosa c’è di bello nella sconfitta? Cosa può esserci di positivo per ogni volta che perdiamo?
Eppure la letteratura ama i perdenti. Giovanni Arpino racconta, in Azzurro tenebra, una Nazionale che avrebbe fallito, quella del Mondiale del ‘74. André Agassi, in Open, scrive che una vittoria non è mai così piacevole quanto è dolorosa una sconfitta. Perdere ci mette a nudo, ci costringe a fare i conti con i nostri limiti, con le debolezze, ci impone un tentativo ambizioso: capire noi stessi.
Pasolini scrive di sé: “Sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so. E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù”. Sommessamente mi permetto di dissentire: visto che il calcio è la più importante delle cose meno importanti, si potrebbe proporre un emendamento a quest’affermazione così tanto nobile.
In fondo, cosa c’è di più bello di un gol in fuorigioco, soprattutto se riesce perfino a bucare quel mostro positivista che è il VAR, o di una vittoria immeritata? Ricordiamo tutti come è andata a finire contro l’Olanda all’Europeo del Duemila. Forse uno dei più romantici furti calcistici del Ventunesimo secolo. Uno scippo bellissimo. Secondo solo al gol annullato per fuorigioco alla Juventus, nonostante Candreva tenesse in gioco Milik in un Juventus Salernitana dell’anno scorso.
Non a caso dico Candreva. Il salernitano appartiene a una razza particolare. Autocentrato, un po’ megalomane. Il salernitano guarda Salerno e vede Manhattan, guarda la Salernitana e vede il Liverpool. Eppure, adesso, nemmeno quest’allucinazione è possibile. Salerno sta vivendo la retrocessione in Serie B come una nave che va alla deriva, impotente. È una sconfitta che aveva le stimmate di quello che sarebbe stato già a novembre, suppergiù. Non è una sconfitta acuta e dolorosissima, è la rappresentazione consapevole di un’agonia.
Tutto inizia per colpa dell’ambizione. Ci sta che un allenatore come Paulo Sousa, uno che si sa che per lui vuole il meglio, dopo aver raggiunto una salvezza tranquilla cerchi condizioni lavorative più audaci. L’ambizione è una caratteristica umana, umanissima se l’ambizioso di turno è uno che considera il calcio come una forma d’arte, che innova, si aggiorna, va alla ricerca costante di soluzioni migliori, esplora. Non sempre ci riesce, ma comunque ci prova.
Ha una clausola contrattuale che gli consente di cercarsi un’alternativa, Sousa si propone qua e là. Bussa alla porta di qualche dirigente, parla con De Laurentiis a Napoli. L’ambizione è umanissima se è la tua, ma una brutta bestia se la subisci, soprattutto se sei una società che pensa, dopo diciotto mesi di Serie A, di essere a un punto di arrivo e non a un punto di partenza.
La mossa di Paulo Sousa diventa un insostenibile affronto. Crea una guerra a bassa intensità fra la società e il suo allenatore. La Salernitana si colloca su un piano inclinato, la stagione diventa una slavina che si trasforma in valanga. Paulo Sousa se la lega al dito. Durante un ritiro che sembra più una vacanza in un villaggio turistico che un momento di lacrime e sangue, è molto esplicito: non sono stati sostituiti i calciatori che sono partiti, non conosco quelli che sono arrivati.
C’è del vero in quello che dice. Un allenatore che fa del possesso e della costruzione del gioco la sua caratteristica principale, si ritrova con calciatori adatti a un calcio che possiamo definire di rimessa? Di ripartenza? Di contropiede? Quello che sia. Ci si mette pure l’intelligenza artificiale, perché la società, di nuovo lei, compra con l’algoritmo Trivante Stewart da Spanish Town, Giamaica.
Lo ha detto il presidente Iervolino, consapevole che fosse solo una scommessa: «I dati ci suggerivano un giocatore con una forza incredibile». Detto che ha un fascino esotico e che di mestiere farebbe il centravanti, il fatto che non sia pronto nemmeno per un torneo di calciotto è una questione rassicurante per la conservazione della specie umana. La fallibilità della macchina è una buona notizia, in ultima istanza è ancora l’uomo a decidere.
Al primo anno di serie A, 16 gol. Forse l’attaccante più forte che abbia mai giocato a Salerno. Boulaye Dia. Una storia da romanzo di Dumas padre. L’ex Edmont Dantès che di mestiere fa l’elettricista e sogna di giocare a calcio, a un certo punto diventa il Conte di Montecristo che fa gol in una semifinale di Champions League con il Villarreal. Ma quando sei la Salernitana, il calciatore più forte devi venderlo prima possibile.
Altrimenti è un attimo, e diventa zavorra. Dia passa dalla voglia di Premier League alla noia di restare a Salerno, ha la sindrome da rientro dalle vacanze, gioca svogliato. Poi sprofonda nell’indifferenza, la sua, della panchina. A Udine consuma l’ultimo atto. Si rifiuta, o meglio: si rifiuta quasi di entrare a qualche minuto dalla fine della partita e da allora inizia un contenzioso un po’ surreale con la società, ancora lei.
Un allenatore ogni nove partite, uno spettacolo d’arte varia. Sousa, Inzaghi, Liverani, Colantuono. Sousa è quello che si è fatto cacciare. Inzaghi ci mette molta buona volontà e non abbastanza capacità di leggere le gare che sta giocando. Dopo i primi balbettii viene richiamato Sousa che dice no, e forse lo smacco estivo impone di non insistere per far rientrare un dissidente.
Liverani in cinque giornate dà la sensazione di essere in un posto dove proprio non vuole stare, di uno che è lì per fare un piacere a qualcun altro. Fa un solo punto. Con precisione insospettabile, ogni volta che va in sala stampa, trova il modo per identificare un capro espiatorio che non sia lui. La società richiama Paulo Sousa e Paulo Sousa rescinde il contratto.
Colantuono è la scelta interna, era il responsabile di un settore giovanile che doveva essere una Cantera che sta crescendo ma che potrà fare di più. È allenatore di tempra, ma di un altro calcio. Da quando c’è il VAR, ha allenato in Serie A per quattro mesi. Lui ha solo il compito di salvare la dignità in questo finale che ha toni di farsa, non è detto che ce la faccia.
Bergamo, per la Salernitana, è una specie di memento trappista. A Bergamo, 29 anni fa, la Salernitana perse una promozione in Serie A con la squadra più bella che abbia mai avuto. A Bergamo, l’anno scorso, c’è stato un 8-2 che qualsiasi tifoso non vorrebbe mai ricordare. A Bergamo, a metà dicembre, c’è la resa: 4-1, poteva essere di nuovo 8-2. È un ricordati che devi morire.
A Natale, Salerno diventa una grande kasbah, pantagruelica e alticcia. Luci d’artista, gente per strada, musica a tutto volume, bel tempo, file interminabili davanti ai negozi. E, in effetti, lo spirito del Natale si impadronisce della Salernitana. Innanzitutto torna Walter Sabatini. Che nell’anno che ogni tifoso dovrebbe vivere almeno una volta, insieme a Davide Nicola e a qualche colpo spericolato, era stato l’eroe della salvezza più disperatamente felice della storia del calcio.
La società pensa che le forze esoteriche lo che accompagnano possano bastare a rimettere in carreggiata la squadra. Sabatini, si sa, sta alla Salernitana come Massimo Decimo Meridio ai legionari de Il gladiatore. Sabatini ha bisogno di amare e di essere amato. In conferenza stampa di presentazione dice: «L’amore di questa città mi ha restituito un tipo di vita al quale non rinuncio.
Ho il vezzo dell’ossigeno sintetico che porto dietro perché, in cinquant’anni, l’ossigeno l’ho consumato tutto. Potrei farne a meno, ma adesso mi serve ossigeno supplementare, perchè stare qui non è uno scherzo. Ho capito che era il segnale giusto, perché questa è casa mia». Fra mille attenuanti e qualche scommessa andata a male, Sabatini non è quel terremoto benigno che si sperava.
Ci si mette anche Inzaghi, che, fra Natale e Capodanno, vince in trasferta a Verona e allontana un esonero scritto. Si dice che sarebbe arrivato De Rossi. Non è detto che avrebbe fatto meglio, dopotutto alla Spal ha fallito. A Salerno, si dice: “E se era buono veniva da noi?”, quindi, probabilmente, al primo pareggio in casa avremmo crocifisso De Rossi.
Fatto sta che De Rossi non è arrivato come non arrivò Simone Inzaghi qualche anno fa. Stava cercando casa a Salerno, Lotito lo aveva spedito in città quando era proprietario sia della Lazio sia della Salernitana, Bielsa litigò con Lotito e Inzaghi tornò alla casa madre. Questo per dire che le vie del Signore sono infinite.
Ma Sabatini e De Rossi a parte, in effetti a Natale la squadra dà segni di sé. Timidi, anzi timidissimi. Del resto, nei momenti difficili ci si accontenta di poco. Pochi punti e poca raffinatezza tecnica, ma almeno grinta e un paio di sconfitte immeritate contro squadre con cui, sulla carta, si parte da un tre a zero per loro.
Poi qualche balbettio con una corsa per la salvezza che sembra più una passeggiata leggera, visto che le altre squadre vanno piano e aspettano tutti, la sconfitta in casa con il Genoa, la partita che dev’essere la grande rinascita, e da quel momento l’elettroencefalogramma piatto. Con l’arresto cardiaco, sempre in casa, con l’Empoli. Ultima possibilità: si gioca all’Arechi con un’altra disperata. Tre a uno per loro, senza nemmeno la speranza dell’illusione.
Ci sono molti colpevoli, in questa stagione sconsiderata. Ma un responsabile. La società. Una società fantasma, una società pirandelliana. È uno, nessuno e centomila. È Danilo Iervolino nelle sue multiformi declinazioni. È arrivato in città parlando di sinallagma d’amore e dispensando sorrisi ed empatia. Ha utilizzato una comunicazione positiva, forse un po’ ingenua, ma globalmente entusiasta.
Quest’anno parla poco, quando parla pare risentito, incupito, assertivo, quasi torvo. Si lamenta del poco amore ricevuto in cambio del suo, generosissimo. Riprende i giornalisti, rivendica il primato sugli investimenti, cavalca il paradigma della vittima: essere vittime impone ascolto, attiva un potente generatore di diritto, autostima, immunizza dalle critiche. L’ambizione maldestra è l’inizio e la fine di questa storia.
Come quella di Paulo Sousa, l’ambizione è il maggior pregio e il maggior difetto di Iervolino. Dice di non aver nulla da imparare nel mondo del calcio, lui che al calcio è arrivato alla fine del 2021. Festeggia la salvezza, due anni fa, con la vendita di maglie celebrative e giri di campo d’onore prima che la salvezza sia conquistata. Si dice non riesca ad acquistare Dovbyk e Zirkzee per rincorrere invano Mertens e Cavani.
Inizia una guerra, valorosissima e donchisciottesca, contro le commissioni ai procuratori e riceve in cambio un embargo: vende pochissimo in Serie A, compra ancora meno dalla Serie A. Poi, forse, si ravvede e cerca altre vie per smontare il Palazzo. Vuole investire sullo stadio, si scontra con la politica locale e si demoralizza.
Decide che non è necessaria una figura che faccia da anello di congiunzione fra i vertici societari e lo spogliatoio, con il risultato che a discutere di strategie di trincea ci vanno manager brillantissimi, ma impegnati in questioni economiche e non di campo. Rimarca il problema delle strumentalizzazioni del tifo, delle offese, delle minacce. Che sono temi non negoziabili, quello che dice è corretto. Purché non diventino un tentativo di isolamento di chi obietta. Si arrabbia, si indigna, si ritira, poi torna, si vede che l’idea di andare in Serie B lo tormenta.
E adesso? Adesso c’è la serie B. Niente più luci a San Siro, niente più notti magiche olimpiche. Certo. Però. Non amo la serie B, me la farò piacere. Trasferte più hipster, calciatori meno bionici, meno confusione per andare allo stadio, meno selfie, meno fiera delle vanità in tribuna d’onore, meno teorie complottistiche sui poteri forti, meno dispersione settimanale delle partite.
Nel suo statuto fondativo, all’articolo 3 c’è scritto il motto della Salernitana: “Macte animo”. È una frase utilizzata da Virgilio e ripresa da Voltaire. Significa: “Coraggio!”. Coraggio, quindi. Che se uno nasce tifoso del Real Madrid, dà tutto per scontato. Se nasce tifoso della Salernitana, ogni punto della vita se lo deve conquistare. Io non sono un ultrà. Ho una visione del tifo solitaria, non esulto, non canto. Ho una concezione della partita come di un momento intimo, di sofferenza.
La curva Sud di Salerno si chiama curva Sud Siberiano, dal soprannome di Carmine Rinaldi, storico ultrà morto nel 2010 a 46 anni. Non avendo mai frequentato la curva da ultrà, avevo capito poco l’importanza del “Siberiano”. L’ho capita quando è morto. Cercando su YouTube ho trovato una sua intervista. Stava rispondendo alla domanda di un giornalista: «Che ne pensi di questa sconfitta?». Lui lo aveva guardato di taglio, con gli occhi che gli avevano dato quel soprannome: «Noi vinciamo anche quando perdiamo». Non so cosa significasse quella risposta ma questo, a Salerno, è il senso della Serie B.
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