Di seguito il pensiero dello scrittore Corrado De Rosa, noto tifoso della Salernitana che ha analizzato così il momento vissuto dai granata:
" Peggio del dolore, c’è solo l’assuefazione al dolore. Quella sensazione in cui si mischiano disinteresse e fatalismo, in cui pare che tutto sia ineluttabile. Eppure nell’ineluttabilità c’è una sorta di giustizia interna. Se sei più debole, prima o poi cadi. Se non hai mezzi, qualcuno ti ferma. Ogni caduta ha in sé qualcosa di logico: un passo sbagliato, un equilibrio perduto.
Il problema che abbiamo a Salerno non è l’inevitabilità della caduta. É il modo in cui stiamo cadendo. È la mancanza di consapevolezza, la vanità che ti fa credere migliore di quanto tu sia. È il narcisismo che ti porta a salvare la tua immagine mentre tutto precipita. Quello sì, è imperdonabile. La squadra é scarsa, fragile, é stata costruita male, d’accordo. Ma la rosa può competere tranquillamente per un basso play-off. E la fragilità può essere dignitosa se vissuta con lucidità.
Il narcisismo è una maschera che, quando cade, lascia solo il vuoto. La Salernitana é penultima in classica non solo perché é debole, ma perché ha finto di non esserlo, ha evitato di guardarsi allo specchio. Ha deciso che, nelle interviste, é meglio dire verità che verità non sono attraverso commenti a partite e circostanze diverse da quelle che abbiamo visto tutti, che è meglio spostare le responsabilità all’esterno, prendersela con gli arbitri, con la sfortuna, col vento contrario e promuovere una cultura degli alibi.
Il rifiuto della realtà è più grave della mancanza di talento. Questo campionato é continuato allo stesso modo in cui era finito quello precedente. É una resa travestita da impegno, un’illusione che si spegne nel silenzio. Si può cadere per inadeguatezza. Ma è peggio affondare mentre si continua a far finta di brillare. La Salernitana é una grande nave di vanitosi.
La decadenza si presenta sempre come un’eleganza portata troppo oltre. La squadra sta precipitando con una compostezza grottesca. Un’eleganza apparente, salottiera, dietro cui si cela un vuoto gestionale, tecnico e soprattutto emotivo. A Salerno il calcio non è solo sport: è sentimento popolare, voce collettiva, carne viva. La Salernitana è speranza, rivincita, identità di una città che ha pochi altri marcatori identitari, a parte San Matteo. Per questo, dalle nostre parti, le retrocessioni non sono mai solo una questione di classifica. Sono ferite profonde.
La retrocessione dello scorso anno aveva qualcosa di fisiologico. Non nel modo in cui è arrivata, certo. Ma rientrava nella logica delle possibilità. Se dovessimo retrocedere anche quest’anno, saremmo davanti a un suicidio dolce, senza reazioni. Non c’è battaglia, non c’è grido. C’è solo un lento affondare di una Società che si è specchiata in se stessa. Incapace di scegliere, paralizzata da veti incrociati e personalismi. Più attenta ai pranzi nella Tribuna Autorità che alla vita dello spogliatoio, ai ritiri in alberghi a cinque stelle, ai premi salvezza fuori scala.
Tre milioni di euro per salvarsi: una sorta di pedagogia del disvalore. Nel pieno del naufragio, mentre la Salernitana frana nel baratro tecnico, tattico e identitario, la Società ha pensato di promettere un premio salvezza da tre milioni di euro ai calciatori. È il gesto di chi non sa parlare un linguaggio autentico e pensa che ogni problema possa essere risolto con un incentivo economico. Una forma di educazione al contrario, come se un genitore promettesse un regalo a un figlio per la promozione dopo averlo visto prendere i voti più bassi dell’anno.
La Salernitana prova a comprare l’illusione del riscatto. Ma offrire milioni a una squadra che rotola giù é ridicolo. Ed è un gesto che racconta il cuore della crisi: si continua a ragionare in termini di facciata, di apparenza. Si pensa che basti una cifra per cancellare mesi di nulla. Che basti pagare per comprare una reazione. Invece il calcio, come la vita, ha bisogno di senso. E qui di senso non ne è rimasto più.
Siamo davanti a un narcisismo istituzionale: incapacità di accettare la realtà, bisogno compulsivo di apparire vincenti anche nella sconfitta, totale assenza di leadership. Il calcio, come la politica e l’impresa, si gioca anche nella durezza del comando. Che qui manca del tutto. Il mondo di sopra, la Società, é diventata Gatsby. Più preoccupata dell’immagine che del risultato. La Salernitana balla in villa mentre la tragedia avanza fuori dai cancelli.
Il mondo di sotto, i calciatori, sono tanti piccoli Jep Gambardella. Eleganti, incapaci di vivere emozioni, anestetizzati, vuoti. Alla ricerca di qualcosa che non trovano mai, senza mai davvero mettersi in gioco. Si impegnano quel tanto che basta a non sembrare del tutto indifferenti; sudano, ma senza fame; parlano di gruppo, ma pensano al prossimo contratto. Sono La grande bellezza. Non sono del tutto colpevoli, non sono nemmeno innocenti.
Nella terra di mezzo c’è stato fino a ieri un allenatore, Breda, una bandiera di campo. Lui si che ha vissuto l’identità fra squadra e città con consapevolezza. Lui si che ha saputo emozionarci. Breda non è un nome come gli altri dalle nostre parti. Un uomo che conosce Salerno, l’Arechi, la fatica. Forse per questo il suo ritorno è stato accolto più con speranza che con razionalità: un’ultima mano tesa, un richiamo identitario, una mossa astuta, manipolativa, deresponsabilizzante. Complimenti alla Società, sempre lei.
Ma Breda è arrivato pensando di avere molto da guadagnare – un riscatto, una rinascita tecnica, una chiusura del cerchio romantica – e si è ritrovato con tutto da perdere. Non ha capito la squadra. Non l’ha mai toccata davvero, né nel cuore né nella testa. L’ha messa in campo in modo scolastico, senza anima, senza lettura. Ha provato a trasmettere qualcosa senza mai farla vibrare. Non ha aggiunto nulla, se non ulteriore smarrimento. Non è un giudizio tecnico, é esistenziale.
Breda ha parlato piano. Ha allenato piano. Ha scelto piano. Perché ha avuto paura. Paura di perdere quel poco che resta: il rispetto, la carriera, il legame con Salerno. Il suo è stato un narcisismo sotterraneo, non esibito, ma ancora più paralizzante. Non ha voluto scontentare nessuno, certo. Ma più di tutto ha avuto paura di scontentare se stesso. Di vedersi crollare addosso un’identità costruita in anni di storia.
Non ha osato. Non ha scosso. Non ha rotto. Ma in questa posizione di “rispetto”, in realtà, si é consumato il suo fallimento. Una guida che non ha guidato. Un uomo che conosceva il luogo, ma non ha saputo più leggerne i codici. E così la squadra ha navigato a vista, senza direzione. I giocatori non lo hanno seguono, forse nemmeno lo hanno ascoltato. Breda si è ritrovato al centro della tempesta, senza vento nelle vele. Un capitano che ha temuto più la tempesta della deriva. La vanità di Breda non è la vanità dell’arroganza, é una vanità fragile, timorosa.
Ora non resta che vedere quello che accadrà con l’ennesimo ribaltamento. Sarà, nel caso, altro capitolo scritto in fretta eppure tardi, male e senza una visione. L’ennesimo gesto mal pensato, mal riflettuto, mal gestito. Un epilogo che somiglia più a un’autoassoluzione che a una reale presa di coscienza societaria. Quale sarà, poi, la prossima mossa? Quale nuova vanità sarà scambiata per strategia, quale decisione improvvisata, sconsiderata, cercherà di salvare le apparenze mentre tutto crolla?
Eppure, in fondo, in un angolo del cuore c’è una speranza ostinata, ribelle, che le cose – chissà come – possano rimettersi a posto. Che dalle macerie di questa stagione nasca finalmente una Salernitana ricominci a guardare avanti.
In questo gigantesco teatro di vanità, i tifosi non possono permettersi il lusso dell’indifferenza, né la comodità dell’autoinganno. Perché la Salernitana è una forma di appartenenza che attraversa i vicoli, le famiglie, la memoria. È un legame che nasce nel tempo e che il tempo non riesce a corrompere. Il peccato dei tifosi, in questo teatro delle vanità, é di guardare la squadra e vedere sempre qualcosa di più grande di quello che é. Ma la sovrastima di una passione è colpa lieve.
Per i salernitani, la Salernitana è un amore che cortocircuita i criteri della razionalità: si retrocede, si soffre, si grida, si contesta, ma non si abbandona. Ecco perché questa stagione è così dolorosa. Non solo per i risultati, per la sensazione di essere presi in giro, di assistere a un collasso estetico, a una sfilata di ego stanchi e disinteressati.
Nella rovina della Salernitana non c’è solo il destino di una squadra. C’è un’intera metafora sportiva sull’epoca che viviamo. Dove l’apparire ha sostituito l’essere. Dove la visibilità ha preso il posto della responsabilità. Dove si preferisce mantenere il ruolo piuttosto che mettersi in gioco. La retrocessione sarebbe una sconfitta emotiva e culturale.
Sei partite sono ancora un tempo, seppur breve. Se non per salvarsi con un miracolo che speriamo tutti, per salvare un residuo di dignità. Per rimettere in campo la parte migliore del calcio: la lotta, il gruppo, il riscatto. Per provare, almeno, a non perdere la Serie B come se fosse un dettaglio. Perché per una città come Salerno non è un dettaglio. È un patrimonio. Da queste parti, nessuno si è vergognato di seguire la Salernitana contro Selargius e Palestrina in serie D. Figuriamoci se la squadra non verrà seguita in Lega Pro nel caso, scellerato, di una retrocessione.
La Serie C può essere perfino una rinascita. A patto che si torni a scegliere. A guidare. A sentire. A capire che il calcio e la vita non perdonano i vanitosi che ballano sul ponte mentre il Titanic affonda. E che a Salerno, il calcio, é il racconto di una comunità".
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